- a cura di Remo Danovi

L’idea di realizzare un Museo del Contadino ha una data precisa: aprile 2000. Sono stato incuriosito da una mostra al Castello Sforzesco di Milano (Strumenti di lavoro, gli oggetti d’arte di una collezione dal 1500 al 1800) e vi ho trovato eccezionali reperti: una tenaglia multiuso del 1500 (è nella copertina di quel catalogo), compassi dalle forme infinite, schiaccianoci, grattugie, cassette di strumenti chirurgici, strumenti da disegno, morse, pinze, trapani, seghetti, asce, scuri, pialle, macinini, rotelle, pinze tagliazucchero, stampi, forbici, incudini e molti altri utensili.

Le incudini erano tante e bellissime e hanno cominciato a rievocare il mio passato. Bambino, nella casa di campagna, avevo occasione di passare vicino all’officina del fabbro, che picchiava il ferro che traeva dal fuoco rovente. Lo vedo ancora oggi. Fuoco e ferro nell’antro di un mondo fantastico. Così, nel ricordo dell’incudine, espressione della forza e della volontà, ho pensato di raccogliere questi oggetti di un tempo passato. E proprio lo stesso giorno, sulla bancarella di un mercatino, ho trovato la mia prima bicornia, appunto un’incudine montata su un ceppo rotondo, racchiuso da un cerchio e da un chiodo. E’ stato il primo elemento del Museo (ed è anche l’unico che non si vede, come il dente del narvalo che è nella wunder-kammer, e i minerali e i fossili con le conchiglie).

storia del museoIl Museo, dunque, ma perché in Lomellina?
La Lomellina è la terra della mia infanzia. Ho passato i primi anni a Frascarolo, nato con la guerra a Milano, ma subito trasferito in campagna per sopravvivere (come si diceva), nella casa dei genitori costruita accanto a quella dei nonni.

Alla guerra sono legati i primi ricordi, piccoli lampi di una coscienza che si risveglia, il rumore degli aerei che sorvolano il paese e il frastuono delle bombe che i nemici (quali?) gettavano sul ponte del Po, ultimo collegamento tra Lombardia e Piemonte. E’ la prima traccia, insieme con la visione di una corsa rapida sotto le volte delle porte interne della casa, al pianterreno, solido baluardo per proteggere da distruzioni e crolli. E io ero lì, sotto la porta e nella porta, con una persona adulta d’occasione, ad aspettare il silenzio, ma senza pensieri di paura.

Avevo tre o quattro anni. Sempre durante la guerra nella casa si sono insediati i tedeschi, e io ricordo la baionetta che recide il collo di un tacchino e i grandi pesci catturati con le bombe e cucinati con l’olio dei motori. Ma vi erano anche il maiale e le botti d’uva. E la fame, almeno per i bambini, non esisteva, non ne ho il ricordo. La fine della guerra le vedo con il paese in festa, una sera, con tutte le luci accese per la prima volta, e tutti nelle strade: ma forse questo è avvenuto dopo, quando l’illuminazione è stata rimessa in funzione.

Verso la fine della guerra a Frascarolo ho cominciato le scuole. Avevo cinque anni. La prima e la seconda elementare le ho fatte insieme, secondo le abitudini di allora. La maestra era molto buona, la zia Edera, una lontana parente, che accettava e amava anche me, primo transfuga del mondo della città. Poi si usciva (le scuole erano nello stesso posto di allora) e ci si attardava a giocare a biglie o con improvvisate figurine, per le strade fangose o lungo la chiesa, in discesa. Le biglie erano rozze, di terra impastata con qualche colore, ma bisognava essere abili per colpire la prima della fila (il boccino) e ritirarle tutte. Di queste biglie sono riuscito a recuperarne una scatola intera.

storia del museoDella scuola non ricordo proprio nulla, salvo un episodio. Questo forse è avvenuto l’anno dopo, quando facevo terza. è morta una compagna, una bambina, e siamo andati tutti a vederla, senza capire. E poi abbiamo fatto un compito in classe, una lettera di addio da consegnare ai genitori. Non so che cosa ho scritto, ma so che il mattino dopo è toccato a me portare la lettera ai genitori, in bicicletta, un poco in tumulto, nella casa vicino al bivio che porta al Po. Poi ricordo un ragazzo, Elio, un povero sventurato, che si muoveva a fatica su una carrozzella, facendo ruotare una manovella. Un giorno l’ho incontrato per strada e l’ho aiutato spingendolo per tutto il paese, per alcune ore. Alla fine mi ha fatto un cenno per avvicinarmi e darmi uno stentato abbraccio. L’ho visto anche sorridere per la prima volta. Questo gesto mi è rimasto per molto tempo. E ancora più tardi, tutte le estati sul Po, per nuotare e catturare pesci, con alcuni pochi amici e riempire gli anni lontani.

Dalle persone alle cose. Il banco di scuola, possibile non trovarlo? Il recinto dei pulcini, gli zoccoli per ferrare i cavalli, i carretti, lo stringi-naso per i tori, le carriole, le vanghe, gli aratri e tutti gli attrezzi di legno (quelli più antichi, a poco a poco sostituiti dal ferro). Così si è formato il primo nucleo del museo, che ho diviso in tre parti: la terra, la casa, i mestieri.

storia del museoNel reparto LA TERRA sono finiti naturalmente tutti gli oggetti delle campagna, dai carri agli aratri, dai gioghi alle falci e ai rastrelli e a tutti i grandi e piccoli utensili usati in quei tempi. Tra I MESTIERI ho collocato le incudini dei fabbri, e poi le pialle dei falegnami, le bilance dei negozianti, la barca e i remi del barcaiolo, le trappole per animali e tante altre cose. Nel reparto LA CASA infine sono finiti i macinini del caffè, i ferri da stiro con la carbonella, la ghiacciaia del tempo, le macchine da cucire a pedale e a manovella, le vecchie radio, i martelli di legno (è sempre il legno che sparisce in fretta), e poi ancora le rotelle, i cavatappi, il “prete” (“l’unica cosa che scalda il letto senza peccare”!), le forme per fare il burro, il soffietto per incipriare le parrucche e tanti altri oggetti.

Così si è sviluppato il Museo, per ricordare una piccola parte di noi stessi che i nostri figli non hanno potuto vedere, e vedono ora per la prima volta, e per insegnare loro che l’idea del passato dà profondità e forza anche al presente. È questa almeno la speranza che trasforma una moltitudine di cose in una testimonianza di vita, e indica la realtà di un tempo, nei suoi valori essenziali, senza contaminazione con gli oggetti e i comportamenti di oggi per guardare con fiducia anche al futuro.